La rivoluzione circolare è una rivoluzione femminista

La rivoluzione circolare è una rivoluzione femminista

Per comprendere davvero il valore politico e trasformativo della moda sostenibile, non possiamo fermarci a una lettura esclusivamente normativa o istituzionale.

Accanto alle strategie messe in campo dai governi, alle leggi europee in evoluzione e alle
pionieristiche iniziative nazionali, c’è un’altra forza, più silenziosa ma profondamente incisiva, che ha già cominciato a cambiare le regole del gioco: la forza delle donne. Non è un caso se molte delle spinte più autentiche verso un modello circolare, giusto e responsabile arrivano proprio da loro.

Donne che scrivono proposte di legge, che portano avanti battaglie per la trasparenza nelle filiere, che fondano imprese etiche e sostenibili. Donne che agiscono come ponti tra le istanze ambientali e quelle sociali, capaci di tenere insieme la visione sistemica e il
dettaglio umano. Ed è proprio da questa consapevolezza che nasce la riflessione successiva, forse la più urgente e necessaria in questo momento storico: la giustizia climatica è, a tutti gli effetti, anche una questione di genere? Non possiamo costruire una moda nuova né un’economia nuova, senza guardare attraverso lo sguardo di chi da sempre si prende cura delle cose, delle persone, della comunità.

Per questo ora ci spostiamo verso un orizzonte più profondo, che affonda le sue radici nel terreno fertile dell’intersezionalità. Lì dove sostenibilità ambientale e giustizia sociale si intrecciano e dove la voce femminile, da troppo tempo relegata ai margini, torna ad essere protagonista.

Donne e sostenibilità
Parlare di sostenibilità senza parlare di donne significa perdere metà della narrazione. Perdere metà della narrazione, in un tempo che ha urgente bisogno di verità e complessità, è come parlare a metà mondo sperando che l’altra metà ascolti.

La crisi climatica non è solo una crisi ambientale: è una crisi sociale, economica e culturale. E, come tutte le crisi sistemiche, colpisce in modo diseguale. I dati globali lo dimostrano: le donne sono più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico, specialmente
nei Paesi del Sud del mondo. Si stima che, tra le persone costrette a lasciare le proprie terre a causa di disastri naturali legati al clima, quattro su cinque siano donne (FONTE: United Nations).

Questo accade perché spesso sono loro a dipendere maggiormente dalle risorse naturali per il sostentamento della famiglia e perché sono meno coinvolte nei processi decisionali.
Accade perché hanno meno accesso alla terra, all’istruzione, alle tecnologie, ma questa non è una narrazione di vittimizzazione, al contrario.

È proprio nella vulnerabilità che nasce la forza di un nuovo protagonismo. Perché sono proprio le donne in tutto il mondo a guidare la transizione ecologica dal basso.


Sono loro a gestire comunità resilienti, a creare modelli di economia solidale, a costruire reti di supporto che coniugano ecologia e cura, ambiente e giustizia sociale. Lo vediamo anche e soprattutto nella moda: sono moltissime le donne che stanno riscrivendo le regole del settore. Donne imprenditrici, artigiane, attiviste, stiliste, ricercatrici, politiche. Donne che non vedono la sostenibilità come un trend, ma come una responsabilità.


Donne che intrecciano fili e storie per costruire un’economia della riparazione e della relazione. Donne che comprendono, spesso istintivamente, che il bene del pianeta non può essere separato dal bene delle persone.

 Il passaggio da una moda lineare a una moda circolare non può prescindere da un cambiamento più profondo, che riguarda i valori, la cura, la responsabilità, la giustizia sociale; e in questo terreno le donne hanno storicamente avuto un ruolo di spinta, innovazione e visione.

La sostenibilità, dunque, non è solo una questione tecnica o normativa, ma anche e soprattutto una questione di sguardo. E quello femminile, con la sua capacità di
immaginare il lungo termine, il legame tra le generazioni, l’equilibrio tra economia e vita, ha già cominciato a mostrare la strada.

Ecco perché parlare di giustizia climatica significa inevitabilmente parlare anche di giustizia di genere. Perché la transizione ecologica non sarà equa se non includerà la voce e le esperienze delle donne, così come una moda sostenibile non si definirà tale finché continuerà a basarsi sullo sfruttamento, spesso femminile, delle lavoratrici del tessile nei paesi produttori.

C’è un’altra dimensione, più sottile ma non meno potente: quella della cultura del prendersi cura. Un tempo considerata un attributo femminile secondario, oggi è probabilmente la chiave per ripensare il modo in cui abitiamo il pianeta e ci vestiamo.
Cura per le cose, per le persone, per le relazioni. Cura come lente attraverso cui leggere il lavoro, il consumo e l’impatto. Cura come forma di resistenza.


Allora sì, possiamo dirlo con chiarezza: una rivoluzione della moda non può che essere anche una rivoluzione femminista. Perché restituire valore alla filiera significa restituire dignità a milioni di donne. Perché cambiare i modelli di produzione significa anche cambiare i modelli di potere.

Perché costruire un sistema circolare è, in fondo, un atto profondamente generativo.
E le donne, da sempre, sanno generare: vita, futuro e possibilità.


E forse, proprio da qui, da questa forza generativa tutta femminile, può nascere la moda nuova che stiamo cercando. Una moda che ripara, che unisce, che cura. Una moda che non lascia indietro nessuno.

Una moda che veste il futuro rendendolo circolare.

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